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Photo of Alfred Eisenstaedt's Children at Puppet Theatre

Once the amateur’s naive approach and humble willingness to learn fades away, the creative spirit of good photography dies with it. Every professional should remain always in his heart an amateur.

– Alfred Eisenstaedt

 

Quella frase in italiano recita più o meno cosi: ” Non tradurre mai la tua passione, il tuo amore per la fotografia, la tua creatività, in mera attività lavorativa. Resta un amatore

Mi sono permesso di interpretarla. Sono sicuro che il buon vecchio Alfred non se la prenderà.

Ci sono tanti fotografi che sono conosciuti grazie ad uno scatto. Lo scatto perfetto, quello che fa il giro del mondo, quello che consegna l’artista stesso all’Olimpo della fotografia. Alfred Eisenstaedt è uno di questi.

Chi non riconoscerà questa foto? 

E’ il celebre bacio di Times Square. Ho sempre osservato i due passanti nello sfondo della foto: quei due ragazzotti che stanno sorridendo. Non riesco a capire il motivo, ma guardandoli non riesco a non sorridere di rimando. E’ qualcosa di inspiegabile.

Ecco, in quell’istante ho capito che questa fotografia è geniale, senza tempo. Sopravvalutata? Ovvio. Esagerata? Ovvio anche questo. Ma ditemi che in quella foto non ci vedete nulla, poi ne riparliamo.

Alfred Eisentaedt.

Nasce nel 1898, da una famiglia ebrea di mercanti, in Polonia. All’età di otto anni va a vivere a Berlino fino al 1935, anno in cui le pressioni del Terzo Reich li costrinsero ad emigrare negli Stati Uniti.

A 14 anni riceve la sua prima macchina fotografica, e nasce qui il suo amore per camere oscure e negativi. Scampa fortunosamente alla prima guerra mondiale, da cui esce ferito ad entrambe le gambe (1917).

Si mette a lavorare nel commercio nel 1922, mettendo da parte denaro per la sua prima macchina fotografica.

Quella che vedete qui di fianco è la sua prima foto.

Decide di lasciare il suo lavoro e di dedicarsi totalmente alla sua passione: apice del suo periodo europeo è durante il 1933, anno in cui immortala i due dittatori, Hitler e Mussolini, durante un incontro.

Costretto a fuggire negli State, diviene uno dei quattro membri del “Progetto x”, organizzato dal “Time”: daranno quindi vita alla rivista LIFE.

Mi entusiasmano questi passaggi di vita. Dietro questi anni si nascondono cosi tante vicende personali che mi spaventa e mi disturba ogni volta leggere le biografie altrui. Mi affascina e mi da fastidio al tempo stesso. Ti sembra quasi di invadere un campo che non è tuo, sfiorandolo solo superficialmente; come si può essere superficiali riguardo la vita degli individui?

In ogni caso, Albert Eisenstaedt.

Uno dei suoi primi lavori alla rivista LIFE fu quello di andare in giro per gli Stati Uniti immortalando gli effetti della Grande Depressione sul popolo americano.

Ma non si ferma solo a questo.

Nel 1942 diviene cittadino americano e ottiene il lasciapassare per poter oltrepassare i confini.

Si trova ad Hiroshima nel 1945 dove chiede a questa donna di posare per lui. Bellissime le parole di Alfred, quando descrisse questo scatto:

“A mother and child were looking at some green vegetables they had raised from seeds and planted in the ruins. When I asked the woman if I could take her picture, she bowed deeply and posed for me. Her expression was one of bewilderment, anguish and resignation … all I could do, after I had taken her picture, was to bow very deeply before her”

Questo scatto è disarmante.

Photograph by Alfred Eisenstaedt / LIFENel 1950 si trova in Inghilterra, dove fotografa Wiston Churchill. Poi viaggia verso l’Italia, dove la volta della povertà del nostro paese si ritrova ad essere un suo soggetto.

100 copertine di LIFE si devono grazie a lui. Più di diecimila scatti pubblicati (immaginate quanti possano essere quelli totali) nella sua carriera; ci lascia un repertorio infinito, pieno di luce: perchè ciò che colpisce, ciò che resta dopo aver visto le sue foto è tanta luce. La luce che illumina la nostra vita.

Grazie Eisie

Man at Prayer (© Alfred Eisenstaedt)

When I have a camera in my hand, I know no fear.

It’s more important to click with people then to click the shutter.

Qui trovate un sacco di fotografie e molti commenti fatti dallo stesso Alfred.

 

R.

Siamo di nuovo a New York.

1928 _ Di nuovo una famiglia ebraica _

William Blake pare abbia influenzato Diane Arbus. Io non sono d’accordo, e traspare nelle sue foto _ La storia personale va letta e riletta dal mio punto di vista.

Quella di William è totalmente diversa dalla vita di Diane, più traumatica, più complessa dal punto di vista sentimentale.

Questo non significa inferiore. Semplicemente, differente. Come lo sono le sue splendide foto.

Io personalmente amo tutti coloro che decidono di entrare con forza nel mondo della fotografia rompendo ogni schema, ogni legame con quella che è la “scuola di pensiero” di quegli anni. Disintegra ogni tabù con l’originalità e la bellezza che lo contraddistinguono. Le sue foto di New York sono qualcosa di mai visto prima.

Ciò che amo di William è la sua storia; forse quasi di più delle sue fotografie. Che poi è come dire la stessa cosa, se vogliamo. Nessun artista, soprattutto chi

sceglie di guardare la realtà attraverso quella minuscola lente, può prescindere dalla propria storia.

Candy StoreWilliam Klein, dicevamo. Dopo aver prestato il servizio militare nell’esercito degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, decide di trasferirsi a Parigi. L’America del dopoguerra gli sta stretta, e decide di studiare la tecnica europea. Torna a New York solo nel 1954. Ed è proprio in quel momento che farà alcuni dei suoi migliori scatti: il mosso, la grana, i soggetti_ogni piccolo dettaglio ci comunica la sua voglia di andare oltre. E ci riesce talmente tanto che non pubblicherà mai negli States il suo libro su New York.

“Life is good and good for you in New York” è del 1956. Il suo capolavoro sulla Grande Mela.

Immaginate di essere un newyorkese degli anni cinquanta. Arriva questo William Klein e vi getta in faccia tutto quello che ogni giorno cercate di evitare: bimbi armati, neri, persone pericolose; voi fate di tutto per fuggire da tutto queste aberrazioni sociali, ed arriva questo cosiddetto artista che ve le piazza in faccia. Sacrilegio! Voi non volete proprio vederle quelle immagini in bianco e nero, cosi malinconiche, tristi, e poi quel mosso! Perchè un fotografo dovrebbe fare delle immagini cosi convulse e senza alcuna logica?

Ah, dannato William. Dirà di quegli anni

era come se fossi un etnografo: trattavo i newyorkesi come un esploratore tratterebbe uno Zulu. Cercavo lo scatto più crudo, il grado zero della fotografia.’
I didn’t relate to European photography. It was too poetic and anecdodtal for me…. The kinetic quality of New York, the kids, dirt, madness–I tried to find a photographic style that would come close to it.So I would be grainy and contrasted and black. I’d crop, blur, play with the negatives. I didn’t see clean technique being right for New York. I could imagine my pictures lying in the gutter like the New York Daily News

 

Questo libro gli vale la fama, e forse la definitiva rottura con il mondo americano. Ma resta un fotografo americano. Lavora con Vogue, contribuendo al cambiamento della fashion photography. Fellini lo chiama come collaboratore nel suo film “Le notti di Cabiria”. Celebri saranno i suoi libri su Roma, Mosca, Tokio.

La capitale italiana merita un capitolo a parte. “Ci voleva un newyorchese perché i romani si conoscessero a fondo”, disse Pasolini. Perchè Klein è un altro di quei fotografi che ha fatto della street photography ciò che veramente suscita in me la voglia di andare in giro ed immortalare il mondo che ci circonda_Il mondo che abbiamo intorno è cosi vasto, cosi pieno di storie da raccontare e da immortalare. La fotografia sociale ha un vantaggio immenso sul giornalismo: ci mette di fronte il mondo colpendo il nostro volto con impeto e passione immani.

 

 

Osservando quelle foto su Roma ci resti di sasso. Ti chiedi come abbia fatto un americano alla sua prima  esperienza italiana a cogliere ciò che meglio caratterizza i romani, e buona parte degli italiani tutti.

Sono fragorose, imprecise, incasinate, contrastanti nei soggetti proposti (L’acquedotto in via del Mandrione scattata nel 1956 è qualcosa di geniale ed impressionante al tempo stesso), piene di italianità. Questo americano è veramente una piacevole sorpresa. Come al solito, conosciuto a pochissimi.

Come poco conosciuta è la sua poliedrica arte.

William Klein non è solo fotografo, ma anche pittore e regista. Nonostante qui si tratti solo della sua splendida parentesi fotografica (metterà da parte la sua Leica per una ventina d’anni, riprendendola solo dopo il 1980, e “limitandosi” a sperimentazioni che non voglio commentare data la mia manifesta ignoranza in materia)

Vi obbligo a guardare la splendida intervista fatta a Klein recentemente. Buona visione

 

Grazie William.

 

 

 

R.

Diane Arbus

Pubblicato: dicembre 15, 2012 in Art, Photography
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La fotografia mi rende libero.

 

Mi innalza, mi fa conoscere il mondo con occhi diversi, mi stimola, mi fa sorridere, mi fa incazzare, alimenta la mia curiosità.

 

File:Diane-Arbus-1949.jpg

E’ come se non ne potessi fare a meno. Anzi, non posso farne a meno. E’ entrata prepotentemente nella mia anima, lasciandomi senza fiato, colpendo la mia personalità con una forza bruta e decisa. Mi costringe quindi a ragionare in termini di scatto e diaframma quando cammino in giro per le strade; penso e ripenso a scene che i miei occhi fissano nel mio cervello, anche solo per un istante. E bramo dal desiderio di fotografarle, di farle mie, di renderle eterne, consegnandole all’universo ad imperitura memoria. Perchè? Ah, quanto è difficile spiegarlo. Quanto è complicato. Lo farò, a suo tempo; ora è tempo di parlare di Diane.

 

Leggendo la biografia di artisti o personalità del passato, ti accorgi di quanto siamo fortunati noi che viviamo il presente. Abbiamo l’opportunità di attingere a un repertorio vastissimo e lasciarci aiutare da questi maestri senza tempo.

Diane Arbus.

Guardando le sue fotografie, si apre una voragine ai tuoi piedi. Tu sei li, con la tua macchina fotografica, con la tua passione, le tue idee, la voglia senza fine di realizzare opere che ti diano un minimo di soddisfazione, e poi…e poi guardi le foto di Diane Arbus. E entri in un vortice di pensieri, in un turbinio di sensazioni che ti lacerano e ti lasciano senza fiato. Ad un certo punto desideri essere lei. Capisci che devi assolutamente visitare una sua mostra, continui a ripeterti che in quelle foto troverai la tua maestra, pensi che troverai ispirazione, che troverai spunti e mille altre cose ancora e poi, e poi, e poi!

Ti calmi e respiri.

Respiri di nuovo. E leggi più attentamente la sua biografia, cercando di non guardare quelle foto.

Oh, ma non ci riesci…l’occhio vola sempre verso quella pagina.

E passano altri cinque minuti.

Dieci.

Venti.

E ti ritrovi al punto di partenza. Con la tua macchina sulla scrivania. Guardi la tua macchina, e guardi le foto di Diane. Quello è il momento in cui vorresti lasciar perdere tutto e gettare la tua passione nel cesso di casa tua. E guardarla affogare, lentamente. E, lentamente, gioire, finalmente libero e privo di ogni peso artistico.

Io ho deciso invece di scrivere. Si sa, la scrittura è terapeutica e porta pace nei propri pensieri…Tutte stronzate. Ma noi uomini cerchiamo di illuderci ogni giorno che passa, chissà che oggi sia la volta buona!

Purtroppo non lo è. E sto divagando.

Diane Arbus.

Ebrea, ricca, nasce negli anni trenta a New York. Si sposa giovane, giovanissima, a 18 anni. Con il marito, apre uno studio fotografico dopo la seconda guerra mondiale. Studia fotografia. E coltiva il suo genio.

Capisce che per fare fotografia, bisogna anche divertirti. E comincia la sua carriera lavorando sul Glamour.

Ma la Diane che ho amato non si limita a fotografare maglioni e vestiti.

A fine anni cinquanta alcuni avvenimenti segnano la sua vita: si lascia con il marito, Allen, e si imbatte con i Freaks, gli scherzi della natura; quei personaggi che osservate con quell’occhio strano, che vi suscitano compassione, pietà, schifezza e ribrezzo allo stesso tempo. Ecco, lei decide di fotografarli.

A New York non le manca certo del materiale.

Ecco quindi che scopre l’Hubert Museum ed il Club 82. Vaga per hotel, camere mortuarie, parchi, dovunque. E scatta le sue splendide foto. Persone con disabilità, deformi, stranezze fisiche. Diane non ha barriere mentali nella sua arte.

cracklepopsnap:Diane Arbus - Moondog at his regular post, NYC, 1963Most people go through life dreading they’ll have a traumatic experience. Freaks were born with their trauma. They’ve already passed their test in life. They’re aristocrats. 

Li considera aristocratici. 

Io mi adatto alle cose malmesse. Non mi piace metter ordine alle cose. Se qualcosa non è a posto di fronte a me, io non la metto a posto. Mi metto a posto io.

Niente post-produzione. Niente artifizi ingannevoli. Totalmente contraria al cambiamento della realtà che la circonda, Diane ci mette di fronte a cose mai viste prima a quell’epoca. Altro che street photografy. Diane è un’avanguardista.

 Difficile riuscire a pubblicare i suoi lavori in una cultura perbenista come quella che circondava in quel periodo la fotografia. Alcune riviste le danno la fiducia che si merita, ma non raccoglie i favori di un pubblico spesso schifato da quello che decide di rappresentare.

E qui mi fermo, un pensiero devastante mi pulsa nella testa.

Vale la pena di insistere nonostante il responso del pubblico non abbia alcuna empatia con l’artista? Nel momento in cui si decide di pubblicare i propri lavori esponendosi al giudizio insindacabile del grande pubblico, come superare un risposta totalmente distruttivo/negativa?

Non ho la minima idea di come ci si possa sentire, ma amo con tutto me stesso persone come Diane.

Le sue foto sono potentissime. La sua tecnica poco importa e ciò, in un ambito come la fotografia, è carico di un significato molto importante. Lasciarsi alle spalle tutti quei discorsi su quale macchina venga usata, su quale pellicola, sulla post-produzione, flash eccetera eccetera e quasi serafico per coloro che non osano attribuirsi l’etichetta di fotografi.

Diane Arbus.

Depressa nella fine degli anni sessanta, si suicida nel 1971. Non riesce a superare i problemi della sua vita, probabilmente accentuati dalla malattia che aveva, l’epilessia. Il matrimonio, la sua personalità difficile che la portava ad avere alti e bassi repentini, non la lasciano tranquilla con se stessa.

Leggere e studiare le vite altrui stimola il mio percorso. Mi sento ricco e più sicuro di me stesso. Per questo non posso far altro che ringraziare Diane, e con lei tutti i fotografi che mi lasceranno con la voglia di parlare di loro.

Lei l’ha fatto, e voglio chiudere questo post con le sue splendide parole

A photograph is a secret about a secret. The more it tells you the less you know.

 

R.